Mitologia in tessere

Quando si parla di “classicismo” o “neoclassicismo” il mio primo pensiero vola – banalmente – verso il mio libro d’arte del liceo. Mi ricordo il susseguirsi di immagini di statue, affreschi e mosaici greco-romani che mi scorrevano sotto gli occhi, pagina dopo pagina. Che meraviglia quei corpi così armoniosi, fasciati da finissime vesti drappeggiate, con i loro movimenti, seppur accennati, fissati nel marmo e sulle pareti nei secoli dei secoli.
E poi, i miti antichi. Come non rimanerne affascinati: perdersi nelle storie e nelle leggende degli dei è un viaggio alla ricerca di quel che siamo stati e di quello che idealmente vorremo di nuovo essere.

Il mito, sempre diverso e sempre lo stesso ad ogni nuovo racconto, fa parte della nostra cultura. Le vicende dell’Olimpo, originali e bizzarre ma sempre memorabili, hanno accompagnato molti di noi sin dall’infanzia e fanno parte della nostra eredità mediterranea.
Per cui immaginatevi la mia sorpresa nello scovare in tre opere d’arte così incredibilmente piccole la sintesi perfetta del nostro patrimonio culturale. 
A prima vista possono sembrare dei cammei, ma se si guarda con più attenzione è possibile scorgere le intersezioni create dalle tessere di micromosaico. 

Il nostro rarissimo trittico di elementi neoclassici raffigura Era (o Persefone), Eros e Ganimede. 

Era/Persefone

Ci siamo a lungo interrogati sull’identità della figura femminile raffigurata nel primo elemento. Da una parte, dicevamo, potrebbe trattarsi di Era, la quale in passato veniva di sovente raffigurata con un melograno posato sul palmo della mano (emblema del sangue fertile e al contempo della morte) e con uno scettro.
Figlia di Crono e di Rea, Era fu prima sorella e poi moglie di Zeus, e come tale sovrana dell’Olimpo. Nell’Iliade è orgogliosa, facile ai litigi, ostinata e gelosa. Nella Guerra di Troia parteggiò per i greci, odiando i troiani per il giudizio di Paride.
Considerata una delle divinità più importanti, era venerata come protettrice dei matrimoni, della fedeltà coniugale e del parto.

Era/Persefone - Ingrandimento

Tuttavia, dopo ulteriori ricerche e riflessioni, ci siamo persuasi che la dea ritratta nel micromosaico potrebbe altresì essere Persefone.
Figlia di Demetra (dea della fertilità, del grano e dell’agricoltura) e Zeus, venne rapita dallo zio Ade (dio dell’Oltretomba) mentre raccoglieva dei fiori nella piana di Nysa. Si narra che dal prato fiorito spuntò un narciso di straordinaria bellezza; nel protendere le mani per raccoglierlo si aprì alla base del fiore una voragine da cui emerse il re dei morti che la rapì per sposarla.
Una volta negli Inferi le venne offerta della frutta: Persefone, senza appetito, si limitò a mangiare solo sei semi di melograno, ignorando però che chi mangia i frutti degli Inferi è costretto a rimanervi per l’eternità. Persefone, dea degli Inferi e regina dell’Oltretomba, viene spesso raffigurata con un melograno in una mano ed una spiga di grano in riferimento alla madre Demetra, che passò lungo tempo alla sua disperata ricerca.

Eros

Il secondo elemento, il più piccolo dei tre, raffigura Eros.
Dio dell’amore, è secondo Esiodo uno dei più antichi dei, contemporaneo del Caos, della Terra e del Tartaro, e rappresenta la forza di coesione della Natura. Secondo altri è invece il più giovane degli dei, ed è rappresentato – soprattutto nei mosaici – come un fanciullo alato.
Sono suoi attributi l’arco, le frecce, la faretra, le fiaccole ed è portatore di doni come fiori, frutta e selvaggina a simboleggiare abbondanza e prosperità.

Ganimede

Il terzo elemento ci parla del mito di Ganimede.
La più antica forma della leggenda narra che Ganimede fosse il più bello dei mortali.   
Zeus, padre degli dei, se ne invaghì e, tramutatosi in aquila, rapì il giovinetto mentre questi pascolava le greggi e lo portò nell’Olimpo affinché servisse da coppiere a tutti gli dei e divenisse il suo amato.
Nelle opere d’arte antiche Ganimede è raffigurato  accanto ad un’aquila, abbracciato o in volo su di essa. Il giovane reca spesso nella mano una coppa, come nel nostro caso.

Ganimede - Ingrandimento

Confesso che ogni giorno passo almeno cinque minuti a rimirarmeli attraverso la lente di ingrandimento. La cura per i dettagli, l’abile uso di tessere nei toni tenui del grigio e del bianco, quasi a richiamare la plasticità delle autentiche statue greco-romane rendono questi elementi unici ed inimitabili.
Avete notato, poi, che i dettagli dei volti non sono realizzati con tante microtessere di vetro smalto ma sono stati delineati interamente su singole murrine?

Lo sfondo nero brillante su cui spiccano le figure dona ulteriore profondità e tridimensionalità agli elementi figurativi.
La maestria del micro mosaicista si esprime nella resa dei volumi e della morbidezza delle vesti.
Questi elementi databili al XIX secolo, provenienti da Roma sono perfetti per essere montati ad anello o a pendente. E perché no, un bravo gioielliere potrebbe anche vederci una parure di orecchini e pendente, abbinando qualche perla barocca per rendere l’insieme ancora più luminoso.
Lascio a voi la scelta e la fantasia. Nel frattempo, io torno ad ammirarli finché ancora sono qui con noi in negozio 😉

Misure:
Era/Persefone: 23 x 18 mm
Eros: ⌀17 mm
Ganimede: 25 x 18 mm

Prezzo:
Era/Persefone: VENDUTO
Eros: VENDUTO
Ganimede: VENDUTO

Guarda il VIDEO qui di seguito per vedere gli elementi in micromosaico come se fossi in negozio

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Piccoli sguardi indiscreti sul Settecento veneziano

Non si tratta di semplici quadri. I dipinti di Pietro Longhi coinvolgono tutti i cinque sensi. Sembra quasi di percepire l’odore di tabacco e caffè che permea le stanze. Le tende sono abbassate, gli ambienti avvolti dalla penombra, rischiarati dalla sola brillantezza dei tessuti e dei gioielli delle dolci dame. Tutti i personaggi sono diligentemente fermi in posa, distinti nei loro abiti eleganti, tuttavia non è difficile immaginare un chiacchiericcio di fondo, lo scambio di una “ciacola” indiscreta, lo scoppio di una risata proveniente da una stanza attigua. E in sottofondo risuona il rumore della vita di una Venezia di metà Settecento.

La luce morbida, la mobilia elegante e diradata, il taglio asimmetrico delle scene, sono tutte caratteristiche che contraddistinguono la cifra del pittore veneziano e che il nostro talentuoso miniaturista – ahimè anonimo – è stato in grado di riportare fedelmente su sottilissime lastre d’avorio.

Miniatura del quadro "Il sarto", 6,3 x 8,3 cm, fine XVIII - inizi XIX secolo, realizzata da un miniaturista seguace del Longhi
"Il sarto" di Pietro Longhi (Venezia, 1701 - 1785), 60 x 49 cm, Dono Girolamo Contarini. Gallerie dell'Accademia di Venezia
Miniatura del quadro "La toeletta", 6,5 x 8,5 cm, fine XVIII - inizi XIX secolo, realizzata da un miniaturista seguace del Longhi
"La toeletta" di Pietro Longhi (Venezia, 1701 - 1785), 61 x 50 cm, Ca' Rezzonico

Le miniature sono tratte da due dipinti ad oggi ancora presenti sul suolo veneziano: il primo, “Il sarto” fu realizzato con olio su tela tra il 1742 e il 1743 ed è conservato presso le Gallerie dell’Accademia di Venezia (purtroppo non è in esposizione). Il secondo, “La toeletta”, sempre un olio su tela, venne dipinto quasi quindici anni più tardi, tra il 1755 ed il 1760 ed è attualmente conservato nella splendida Sala Longhi, al secondo piano di Ca’ Rezzonico.

Osservando le opere del Longhi è facile individuare i costanti riferimenti al mondo teatrale e può essere tracciato uno sviluppo parallelo tra l’opera del pittore e quella del commediografo veneziano Carlo Goldoni. Quest’ultimo, attraverso il superamento della commedia dell’arte, creò un nuovo tipo di teatro ispirato alla vita reale, allo stesso modo l’artista, pittore principalmente dell’alta borghesia mercantile veneziana, propose nella sua pittura, un’attenta osservazione e la cronaca puntuale del costume sociale di un’intera epoca.

Ci siamo a lungo interrogati sul perché il nostro miniaturista abbia scelto tra tutta la produzione del Longhi proprio questi due dipinti come soggetti per la sua opera. E poi abbiamo notato che se poste l’una vicina all’altra le miniature hanno una composizione speculare, con elementi simili e ricorrenti.

In entrambe le miniature la scena è centrata da un gruppo di tre persone disposte nello stesso ordine, ovvero ad un lato la padrona intenta ad ammirare il vestito portole dal sarto nella prima miniatura, e ad imbellettarsi il viso nella seconda. Al centro una servetta le porge un vassoio con sopra degli unguenti profumati ne “La toeletta” ed una lozione rinfrescante ne “Il sarto”. Il trio è completato infine dal personaggio che regge l’abito, così soffice e luminoso tra le mani del sarto da una parte, e di una dama di compagnia dall’altra.

Siamo sicuri che anche al vostro occhio non sia scappata la presenza del cagnolino in entrambe le miniature. Ne “Il sarto” è curiosamente intento ad osservare bramoso il biscotto allungatogli dalla bimba. Chissà di quali segreti e pettegolezzi sarà stato silenzioso ed involontario testimone…

L’arredamento delle camere contribuisce a ravvicinare moltissimo le miniature: l’alta parete rivestita dalla tappezzeria dai caldi colori avvolgenti fa da sfondo al ritratto di un illustre antenato da una parte – forse un alto funzionario? O, chissà, addirittura un doge? – e ad uno specchio delicatamente inciso nell’altra.

A margine delle scene si intravedono ulteriori elementi speculari: ne “La toeletta” possiamo notare una grande porta rivestita da una pesante tenda in velluto verde, e ne “Il sarto” un imponente caminetto in marmo.

Le cornici in metallo argentato ed avorio delicatamente inciso e decorato con motivi di fiori e foglioline contribuiscono a rendere unica ed inseparabile questa coppia di splendide miniature.
 
Ps: Non appena riaprirà Ca’ Rezzonico – il Museo del Settecento veneziano (al momento ancora chiuso a causa dell’emergenza Covid-19), vi porteremo con noi ad ammirare la copia originale del dipinto “La toeletta”. Promesso!

Misure – Il sarto:
con cornice: 10 x 11,5 cm
senza cornice: 6,3 x 8,3 cm

Misure – La toeletta:
con cornice: 10 x 12 cm
senza cornice: 6,5 x 8,5 cm

Prezzo: VENDUTE

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L’anello dei segreti

M’avrai, ma fredda esanime spoglia” sussurra Leonora suggendo il veleno racchiuso nel suo anello.
Queste parole ci accompagnano in una delle scene finali de “Il Trovatore” di Giuseppe Verdi.
La bella Leonora, disperata per la condanna a morte del suo amato Manrico per mano dell’odiato Conte di Luna, giura al malvagio di sposarlo a patto di liberare l’amato. La promessa è tuttavia un inganno: Leonora ingerirà il veleno celato nell’anello, morendo tra le braccia del suo Trovatore.
Assistetti all’opera per la prima volta nel 2001, all’Arena di Verona. Avevo 14 anni. E fu in quel momento, mentre venivo cullata dalle dolci musiche di quel melodramma dalla trama così intricata, che venni a conoscenza degli anelli per il veleno rimanendone incantata.

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Questi anelli, la cui diffusione prese piede in Europa nel XVI secolo ma la cui origine è nettamente orientale, sono caratterizzati da un piccolo scomparto segreto in cui veniva riposta la sostanza letale.   
Lo scomparto poteva essere celato sotto la montatura o sotto la pietra incastonata che all’occorrenza veniva spezzata. Quando il gioiello perse nel tempo il suo scopo fatale per divenire un monile più ricorrente (seppur abbastanza inconsueto in tempi moderni) non fu più necessario occultare eccessivamente lo scomparto che divenne nella maggioranza dei casi parte del castone stesso.

A questo punto l’anello non serviva ormai più esclusivamente a celare pozioni mortali, ma divenne un piccolo scrigno discreto e personale per portare sempre con sé il ricordo di una persona amata (ad esempio una ciocca di capelli), sali o essenze profumate, pillole, messaggi segreti, reliquie e qualsiasi cosa di prezioso che potesse essere contenuto all’interno di uno spazio così minuscolo.

Non è la prima volta che incontriamo questo tipo di gioiello: chi è venuto a farci visita si ricorderà forse degli anelli da matrimonio giudaici in cui ogni tanto ci capita di imbatterci. Anch’essi nascondono uno scompartimento sotto il coperchio forgiato in forma di casa (a simboleggiare felicità e prosperità per la coppia) al cui interno veniva riposto un pezzetto della ketubah (contratto di matrimonio) o delle spezie profumate per santificare la cerimonia.

Chissà quali piccoli tesori avrà racchiuso l’anello di cui vogliamo parlarvi oggi.
Di chiara fattura Medio-orientale, l’anello è stato realizzato in argento e filigrana d’argento. Lo scomparto segreto, a sezione quadrata, è celato da un coperchio a cerniera minuziosamente lavorato.        

Chi ci conosce sa che ci sentiamo un po’ gli Sherlock Holmes dell’antiquariato – la ricerca e la catalogazione sono una delle parti più stimolanti di questo mestiere -: lente alla mano abbiamo osservato i punzoni (marchi dell’argento) che ci hanno permesso di scoprire che durante la sua esistenza, l’anello venne importato in Francia alla fine del XIX secolo. Più nello specifico l’argento venne saggiato proprio a Parigi tra il 1890 ed il 1891 (vedi la scheda tecnica per maggiori dettagli).        
Dopo chissà quanto girovagare l’anello è ora arrivato a Venezia, in attesa di una nuova destinazione e di nuovi piccoli segreti da celare al suo interno.

Taglia: 14/54
Peso: 4,4 g

Prezzo: VENDUTO

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India e Venezia, miniature e micromosaici

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[Read the article in English]
Due luminosi occhi neri. Un dolce sorriso ad impreziosirle il volto. 
Soffici capelli neri le ricadevano sulle spalle coperte da sontuosi abiti ricamati in fili d’oro e d’argento. Orecchini e bracciali dalle mille pietre preziose tintinnavano ad ogni suo passo. 
E’ così che ci piace immaginare Mumtaz Mahal, la moglie favorita del Gran Mogol Shah Jahan, colei alla quale dedicò la costruzione del celebre Taj Mahal.  
La sua storia è così famosa e la sua figura così amata in India che ne sono stati realizzati meravigliosi ritratti, soprattutto nel XVIII e XIX secolo.  I poeti hanno composto innumerevoli liriche ad elogio della sua grazia e della sua misericordia verso i meno fortunati. E miniature, vennero dipinte moltissime miniature per poter trattenere il ricordo della dolce fanciulla sempre a portata di mano. 
Gli inglesi, poi, diffusero l’immagine piena di romanticismo della bella Mumtaz Mahal (dal persiano “l’eletta/il gioiello del palazzo”) in madrepatria commissionando ad abili artisti indiani la produzione di suoi ritratti-miniature secondo il gusto dell’epoca, il cosiddetto “Company Style”. 

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Lo “Stile delle Compagnie” o “Pittura delle Compagnie” (in inglese “Company style” o “Company Painting”, in hindi “Kampani Kalam”) è per l’appunto un termine che designa uno stile pittorico ibrido indo-europeo sviluppatosi in India e perpetuato da artisti indiani. La loro produzione era destinata al mercato europeo tramite la Compagnia delle Indie Orientali. Tale stile fondeva elementi tradizionali della pittura Rajput e Mogul con la cura tipicamente occidentale per la prospettiva e per il volume. La maggior parte dei dipinti erano di piccoli dimensioni, riflettendo la tradizione delle miniature indiane, mentre le raffigurazioni di piante ed uccelli erano solitamente a grandezza naturale.       
Nel tempo, la maggior parte dei ritratti miniature di Mumtaz Mahal è andata – ahimè – perduta. Le miniature erano per lo più realizzate su sottilissime placchette d’avorio, estremamente fragili e deperibili se non incorniciate debitamente. La rottura era dunque nella maggior parte dei casi inevitabile.

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La miniatura è impreziosita da una raffinata cornice in micromosaico, di chiara produzione veneziana (fine XIX secolo), ornata da una ghirlanda di micromurrine floreali nelle forme di margherite e viole del pensiero su un brillante fondo turchese. 
In epoca vittoriana le miniature indiane così come gli oggetti italiani in micromosaico erano particolarmente ricercati dai collezionisti inglesi. Non era dunque infrequente che forme di artigianato pur così lontane venissero accostate con esiti eleganti e armonici come nel caso della nostra miniatura. 

Ogni tanto, interrogati sul nostro mestiere, ci viene chiesto: se mai ne esistesse uno, qual è l’oggetto che sentite mancare alla vostra collezione? 
Ebbene, non appena abbiamo messo gli occhi su questa miniatura, abbiamo capito che era proprio questo uno dei nostri tesori mancanti. 

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E’ piccola, all’apparenza modesta, ma credetemi che da quando è arrivata, la luce emanata dalla miniatura della dolce Mumtaz ha pervaso il nostro negozio. E speriamo che dopo aver fatto tappa a Venezia nella nostra piccola bottega del Ghetto, possa essere presto raccolta da qualcuno che ne avvertirà lo splendore e trasportata verso lidi esotici almeno quanto quelli delle sue origini. 
Per quanto ci riguarda, siamo già a caccia del nostro prossimo tesoro perduto… alla prossima!

Trasparenze secolari

[ENGLISH]                                                                                                     [FRANÇAIS]

Il successo della nostra mostra “Venezia: armonie di vetri e tessuti” durante la prima edizione – o come gli addetti ai lavori preferiscono chiamarla, l’edizione “zero” –  di “The Venice Glass Week” ci ha confermato di essere sulla strada giusta: se da una parte l’arte contemporanea sta garantendo nuova e prospera vita al vetro di Murano,  permettendo ad artisti italiani e stranieri di sperimentare forme inusitate e tecniche all’avanguardia, ci sono ancora moltissimi appassionati che desiderano conoscere e approfondire la storia passata di questa splendida arte.
Nel panorama del festival siamo stati tra i pochissimi ad allestire un evento – una mostra nel nostro caso – dedicato alle trasparenze meno recenti, esponendo vetri del XIX secolo e dell’inizio del XX secolo, accompagnati da delicate trame di tessuti veneziani.

L’incanto nello sguardo dei visitatori ci ha spinto a continuare la ricerca di meraviglie del passato e a spingerci ancora di più nei meandri della storia.
La ricerca non è per niente facile ma, ça va sans dire, è appassionante, ogni giorno di più!
E’ con piacere che vi presentiamo in questo primo articolo del 2018 una delle nostre ultime acquisizioni, un vero e proprio tesoro dal XVII secolo: una coppia di ampolline in vetro trasparente incolore lavorato “a penne”.
La descrizione tecnica è reperibile nella scheda descrittiva che abbiamo preparato ad accompagnamento dei due vetri, i curiosi e gli appassionati possono comodamente scaricarla qui –> [scheda descrittiva]

La foto potrebbe tradire le dimensioni reali; le ampolle sono molto piccole, leggere e delicate. Così delicate che per il momento abbiamo preferito lasciarle così come le abbiamo trovate, senza tentare di pulirle.
Il vetro può risultare più opaco, poco luminoso e brillante, è vero, ma il rischio di intaccare seppur minimamente la superficie ci fa propendere per l’astensione da interventi di pulizia.
I più acuti osservatori avranno notato come all’interno sia possibile vedere delle tracce di cera.
Come mai la cera? Perché con tutta probabilità i due piccoli contenitori in vetro avevano uso liturgico. Non è difficile immaginarli infatti ad ornare la tavola di un altare, vicino a delle candele, uno a contenere del vino, l’altro dell’acqua per l’Eucarestia.  

Il vetro soffiato è tra i materiali più fragili esistenti. Se le sue trasparenze, poi, hanno riflesso la luce e i colori di quattrocento anni di storia, è inevitabile che l’integrità della vita dell’oggetto possa essere a rischio.
L’ansa di una delle due ampolle ha effettivamente incontrato un destino avverso: ad un certo punto della sua esistenza deve aver subìto un urto ed è ora mutila della parte superiore.

Ampolline simili sono attualmente conservate al Museo del Vetro di Murano, Venezia e al Museo Poldi Pezzoli di Milano.

Siamo entusiasti al pensiero che da qualche giorno a questa parte, anche il nostro negozio abbia la fortuna di ospitare dei vetri così longevi e affascinanti.
Vi aspettiamo per farveli vedere di persona!

Prospettive dal passato e… una domanda finale per voi!

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[ENGLISH]                                                                                  [FRANÇAIS]

Quando abbiamo trovato questa incisione siamo stati colpiti dalle sue piccole dimensioni (il diametro misura 8 cm), dalla forma rotonda e dall’importanza data alla profondità prospettica dell’immagine.
La finezza dei dettagli trae in inganno moltissimi dei nostri visitatori: ad una prima occhiata potrebbe sembrare infatti una miniatura dipinta a mano su carta.
Guardando con più attenzione si scopre che questo prezioso interno di cattedrale o chiesa è stato stampato a colori. L’unica traccia di intervento a mano è dato dalla lumeggiatura con gomma arabica di certi particolari.
Ma una stampa così piccola, oltre ad avere una funzione puramente decorativa, a cos’altro poteva servire?

Che potesse essere l’illustrazione di un libro ritagliata da qualche sventurato? Possibile, ma solitamente – seppur non sempre – simili immagini erano accompagnate da una qualche didascalia.
Che facesse parte di una serie di piccole stampe a tema che, se esposte insieme, avrebbero assicurato uno splendido risultato decorativo? Plausibile, ma le incisioni sono generalmente – anche in questo caso, non sempre – caratterizzate da dimensioni maggiori per essere ben visibili anche da una ragionevole distanza.
Che fosse un esercizio di maestria di un incisore? Possibile anche questa ipotesi.
Come per ogni oggetto che arreda il nostro negozio abbiamo svolto qualche ricerca e siamo venuti a capo del mistero.
Si tratta di una litografia a colori su disco in carta per poliorama panottico risalente al 1849. Una sorta di diapositiva rudimentale da inserire in un visore che, grazie ad un gioco di lenti, luci e prospettive, ne avrebbe esaltato il senso di profondità ottenendo un effetto molto realistico. Ma non solo, grazie alle lumeggiature in gomma arabica o a dei collage sapientemente eseguiti, era possibile ottenere per la stessa immagine una versione diurna e una notturna.

Photo ©: Dabrowski Stéphane CATALOGUE DES APPAREILS CINÉMATOGRAPHIQUES DE LA CINÉMATHÈQUE FRANÇAISE ET DU CNC
Photo ©: Dabrowski Stéphane CATALOGUE DES APPAREILS CINÉMATOGRAPHIQUES DE LA CINÉMATHÈQUE FRANÇAISE ET DU CNC

Che cos’era dunque il paliorama panottico? Questo strumento, semplificazione delle scatole ottiche del XVIII secolo e del diorama di Daguerre, è stato brevettato da un fabbricante di giocattoli e ottico, Pierre Henri Amand Lefort, il 21 febbraio 1849.
Prima di lui, il disegnatore parigino Auguste Louis Régnier aveva messo a punto un primo metodo per ottenere delle immagini “dioramiche”, metodo che sarà ripreso e semplificato da Lefort.
Lefort utilizzava delle litografie stampate fronte-retro ed uno strato di carta fine sul quale poteva incollare dei piccoli pezzetti di carta colorata. Le immagini erano a volte perforate, come nel XVIII secolo, e incorniciate con legno o metallo.
Data la fragilità della carta, abbiamo preferito proteggere l’interno di cattedrale con una bella cornice della stessa epoca.

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Photo ©: Mg/Antichità al Ghetto SAS

Prima di chiudere questo post, desidero lasciarvi con una domanda: qualcuno tra voi lettori riesce ad identificare a quale cattedrale o a quale chiesa possa corrispondere l’interno?
Un po’ per l’architettura rappresentata e un po’ per istinto, riteniamo possa trattarsi di un luogo francese, ad esempio la Basilica di Sant’Eutropio di Saintes presenta molte analogie. Ma no… siamo ancora lontani dalla risposta giusta!
Chi lo sa, potrebbe anche trattarsi di un luogo inventato, in ogni caso grazie in anticipo per chi vorrà aiutarci! 🙂

 

“Tragédies du Ghetto” all’asta da Sotheby’s

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Lot 247 on Sotheby’s online catalogue, click on the image to view the catalogue – Photo © Sotheby’s

[ENGLISH]                                                                                  [FRANÇAIS]

Il 15 dicembre si terrà a New York un’importante asta dedicata alla giudaica organizzata da Sotheby’s. Gran parte delle meraviglie messe all’incanto fanno parte della collezione di Shlomo Moussaieff, noto gioielliere e collezionista d’antiquariato israeliano venuto a mancare a luglio dello scorso anno.
Tra gli splendidi cimeli elencati nel catalogo abbiamo notato un lotto a noi familiare: un’edizione delle “Tragédies du Ghetto” di Israel Zangwill, riccamente illustrata con acquarelli e disegni originali per mano di Alice Halicka (1894-1975), pittrice polacca, residente per gran parte della sua vita in Francia.

Il lotto è il numero 247 ed è possibile ammirarlo – Sotheby’s ha pubblicato delle foto in ottima definizione – a questo link: http://www.sothebys.com/en/auctions/ecatalogue/2016/important-judaica-n09589/lot.247.html

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Photo ©: Mg/Antichità al Ghetto SAS
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Israel Zangwill

Tragédies du Ghetto, contes de Israel Zangwill”  venne tradotto da Charles Mauron e pubblicato a Parigi dalla casa editrice Emile Hazan nel 1928 con tiratura limitata; ne vennero stampate solamente 2500 copie.
L’autore, Israel Zangwill (1864-1926), fu un famoso umorista e scrittore inglese, nonché leader dell’Organizzazione Sionista, che lasciò nel 1905 per fondare l’Organizzazione territorialista, avente l’obiettivo di creare uno stato ebraico al di fuori della Palestina.
Ghetto Tragedies”, questo il titolo originale in inglese, venne pubblicato nel 1899; il volume raccoglie una serie di racconti tragicomici in cui si narrano episodi di vita in alcune comunità ebraiche d’Europa. La raccolta è parte integrante del filone di racconti sul Ghetto di cui fanno parte “Children of the Ghetto” (1892), “Grandchildren of the Ghetto” (1892), “Dreamers of the Ghetto” (1898) e “Ghetto Comedies” (1907).
L’esemplare all’asta è più unico che raro. Oltre a racchiudere 57 illustrazioni originali dell’artista, contiene anche una dedica autografa della pittrice: “Illustré spécialement pour Madame Robert Ellissen, Alice Halicka”. Un’opera eccezionale stimata 12,000-16,000 dollari (circa 11,175-14,900 euro) e già bandita il 19 giugno 2012 a Londra da Christie’s, realizzando 6,250 sterline (circa 8,035 euro).
Alice Halicka nacque in Polonia nel 1894. Fu la moglie del pittore cubista Louis Marcoussis; a seguito dell’invasione nazista a Parigi nel 1940 la coppia dovette spostarsi a Cusset, nei pressi di Vichy. La donna vi rimase fino alla morte del marito nel 1941. Halicka pubblicò le sue memorie di guerra “Hier, souvenirs” nel 1946 e fece ritorno a Parigi, dove si spense nel 1975.

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Photo ©: Mg/Antichità al Ghetto SAS

Come anticipato, il libro non ci è sconosciuto. Abbiamo avuto infatti l’occasione di ospitarlo tra i nostri scaffali per ben due volte. Il primo esemplare era il numero 253 di 2500, mentre il secondo è il numero 2465.
In entrambi i casi, le pagine erano prive di illustrazioni o dediche per mano di importanti pittori o personalità dell’epoca. Non di meno, il libro è di grande interesse storico e culturale, e se mai ne aveste l’occasione – per il momento una copia è ancora disponibile nel nostro negozio – , ve ne consigliamo la lettura.

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Photo ©: Mg/Antichità al Ghetto SAS

Ciò che più colpisce è come Zangwill, seppur con grande distacco e mai in maniera esplicita, si pone severamente nei confronti dei suoi personaggi, vittime spesso del proprio estremo conservatorismo e ortodossia.
Staremo ora a vedere quanto realizzerà il 15 dicembre  all’asta. Speriamo che il fascino del libro e delle meravigliose illustrazioni suscitino interesse in altri appassionati, e che il libro possa presto arricchire la collezione di un altro fortunato cercatore di tesori.

 

La miniatura e il quadro scomparso

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Photo ©: Mg/Antichità al Ghetto SAS

[ENGLISH]                                                                                  [FRANÇAIS]

Lo sguardo della fanciulla e i colori tenui del dipinto ci hanno conquistato ancor prima di voltare la tavola a scoprire la nota scritta a mano sul retro della miniatura. Non è stato facile decifrare la calligrafia del messaggio, ma con l’aiuto di due amici madrelingua inglese ce l’abbiamo fatta. Le informazioni contenute, ricche di nomi e dettagli, sono state preziosissime.

La miniatura su avorio è una copia in versione ridotta di un’opera di ‘Schidone’, al secolo Bartolomeo Schedoni (Modena 1578 – Parma 1615), artista irrequieto – si conosce molto della sua vita grazie ai numerosi atti processuali a suo carico – la cui mano fu molto influenzata dai dipinti del Carracci.

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‘Fanciulla con la tavola dell’alfabeto’ o ‘Il “Padrenostro”’, olio su tavola, 1609 Bartolomeo Schedoni – Immagine tratta dall’opera monografica “Bartolomeo Schedoni 1578 – 1615” a cura di Emilio Negro e Nicosetta Roio, Artioli Editore, 2000 (cat. 29)
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Photo ©: Mg/Antichità al Ghetto SAS

Il quadro in questione è un olio su tavola con titolo ‘Fanciulla con la tavola dell’alfabeto’ o ‘Il “Padrenostro”’, cm 84,5 x 35,5, la cui ubicazione è attualmente ignota.
Nel 1607 il Padre Bernardino da Marradi, Frate Minore dei Cappuccini di S. Francesco a Fontevivo, dettò i nuovi capitoli riformati della locale Compagnia delle Putte della Dottrina Cristiana, che si assumeva di educare, istruire e provvedere annualmente alla dote di dodici fanciulle oneste e da marito, sorteggiate fra le più  bisognose e meritevoli. I Cappuccini e Ranuccio Farnese – duca di Parma – decisero di sfruttare al meglio il favore del popolo, che aveva accolto questa iniziativa benefica con grande calore: venne deciso di dare un’aura di ufficialità alle celebrazioni e perciò, a partire dal 2 febbraio 1609, festa della Purificazione di Maria, in quello stesso giorno di ogni anno a venire le vincitrici della “borsa della ventura” avrebbero dovuto partecipare – vestite con i colori dell’abito della Madonna – ad una solenne processione che sarebbe approdata nelle chiese cappuccine di Parma, Piacenza e Fontevivo. Fu così che Ranuccio volle commemorare questo avvenimento affidando a Schedoni l’esecuzione del dipinto noto come il “Pater Noster”: questo fu consegnato il 25 aprile 1609 assieme ad altre sue opere.
La tavoletta raffigura dunque  “una putina con una tolla in mano” su cui sono leggibili la metà delle lettere dell’alfabeto, la scritta “Oratio domenicale” e, appunto, alcuni versi del “Pater Noster” (da cui il titolo assegnato al dipinto): una sorta di sillabario, ossia un “Summario” che si dava alle giovinette affinché potessero studiare i primi rudimenti della scrittura, indispensabili per imparare a leggere e pregare correttamente. La fanciulla inginocchiata indossa, in riferimento all’abito della Vergine immacolata, un vestito bianco e azzurro, ha riposto da poco il cesto da lavoro e invita al silenzio il bel giovane tentatore alle sue spalle.

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“This painting on ivory, copied from a small oil (reduced painting by Schidone) – belonging atte (to) Earl of Gainsborough – and burnt in the fire at Exton Park, was one by Henriette Finch sister of George Earl of Winchilsea, about 1798” – Photo ©: Mg/Antichità al Ghetto SAS

Del dipinto originale disponiamo purtroppo solamente di un’immagine in bianco e nero; non si conosce infatti il luogo dove esso sia collocato ai nostri giorni.  Dalle note affisse sulla miniatura pare che il Conte di Gainsborough fosse in possesso di una copia, arsa nel terribile incendio di Exton Park nel 1810. L’ultima segnalazione di un dipinto con lo stesso soggetto – forse l’originale? – giunge da Londra, dalla collezione Halsborough.
Qualche parola sulla nostra miniatura: l’immagine è impreziosita dall’irregolarità della tavola i cui lati curvi definiscono chiaramente la sezione di zanna d’elefante. Stando a quanto riportato dalle note a descrizione del dipinto, trascritte su un foglio di pergamena saldamente incollato alla tavoletta di avorio, la miniatura intorno al 1798 è appartenuta a Mary Henrietta Elizabeth Finch-Hatton (1753 – 1822), sorella (?) del Conte George Finch IX of Winchilsea (1747 – 1823). La preposizione ‘by’ posta prima al nome di Henrietta ci indurrebbe ad ipotizzare inoltre che  la miniatura potrebbe addirittura essere stata realizzata da Henrietta stessa in quell’anno.
Se volete ammirare la miniatura di persona, venite a trovarci, saremo felici di mostrarvela!

Bibliografia: “Bartolomeo Schedoni 1578 – 1615” a cura di Emilio Negro e Nicosetta Roio, Artioli Editore, 2000, pagg. 84 – 85

Tre pesciolini e una leggenda

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Quando ho visto questi tre pesciolini in filigrana d’argento e corallo non ho potuto fare a meno di pensare a una fiaba indiana che mi raccontarono da bambina. La storia è tratta dal Pañcatantra, un’antica raccolta di favole in prosa e versi.

Photo © Mg/Antichità al Ghetto SAS

Tre pesci vivevano in un laghetto. Il primo si chiamava Preparati Per Tempo, il secondo Pensa Alla Svelta e il terzo Aspetta e Guarda. Un giorno sentirono dire da un pescatore che l’indomani avrebbe lanciato la sua rete nel loro laghetto.
Preparati Per Tempo esclamò: “Questa notte me ne scappo nel fiume!”.
Pensa Alla Svelta disse: “Sono sicuro che mi verrà in mente un piano”.
Aspetta e Guarda commentò pigramente: “In questo momento non riesco proprio a pensare a niente…”.
Quando il pescatore lanciò la sua rete, Preparati Per Tempo era già partito. Ma Pensa Alla Svelta e Aspetta e Guarda furono catturati.
Pensa Alla Svelta si girò velocemente a pancia in su fingendo di essere morto. “Oh, questo pesce non è buono!” disse il pescatore, e lo gettò al sicuro nell’acqua. Aspetta e Guarda invece finì malauguratamente al mercato del pesce.
Ecco perché si dice che nei momenti di pericolo, quando la rete è stata gettata, è bene essersi preparati per tempo o pensare alla svelta!

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Antica scrittura della leggenda